Fedora è la città ideale, la città che ognuno di noi vorrebbe. Dal libro “Le città invisibili” di Italo Calvino.
Condividiamo l’incontro con Valeria La Corte, responsabile bandi e progetti dell’Associazione Culturale Fedora. Associazione che, dal 2018, promuove l’accessibilità in ambito culturale per persone con disabilità sensoriali.
Chi è Fedora? Come e perché è nata?
Fedora nasce nel 2018, con sede a Milano, dalla volontà di Ginevra Bocconcelli, Luca Falbo e me. Ginevra è la presidente dell’associazione, si è formata come organizzatrice dello Spettacolo dal Vivo presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Luca è il disability manager (responsabile delle persone con disabilità), pedagogista e interprete LIS. Ha una formazione un po’ diversa dalla nostra, in Comunicazione e Consulenza pedagogica. Io sono progettista culturale, mi occupo di audience development and engagement (ampliamento e coinvolgimento dei pubblici) nel mondo della cultura e dello spettacolo dal vivo.
Ginevra ed io ci siamo conosciute dieci anni fa, a Bologna, per l’Università. Avendo entrambe rapporti quotidiani con persone con disabilità e che, come noi, hanno la passione per il teatro, abbiamo iniziato a interrogarci su come rendere il mondo dello spettacolo più accessibile.
Dieci anni fa, del tema, se ne parlava ancora poco. Noi abbiamo iniziato a ragionare e a guardarci attorno, anche con molta ingenuità, per capire come fare. Per anni è stata solo una pulce nell’orecchio, fino a quando abbiamo deciso di formarci come associazione, dopo l’incontro con Luca.
I primi anni siamo stati un’associazione che non aveva di certo l’ambizione di costituirsi come punto di riferimento in questo ambito, come invece, adesso, cerchiamo di fare. All’epoca avevamo già un lavoro full-time. Abbiamo iniziato con piccoli progetti e attività a guadagno zero.
Piano piano, però, abbiamo capito che ci stavamo inserendo in uno spazio vuoto, dove non c’erano tante altre realtà, e abbiamo cominciato ad avere interlocutrici e interlocutori abbastanza importanti, nonostante la nostra minuscola entità. Nel momento in cui abbiamo intravisto una possibilità di crescita, ci siamo buttate a capofitto in questa realtà, confidando in un seguito, in termini professionalizzanti.
Tutte le nostre conoscenze e competenze, al netto della formazione in Accessibilità della Comunicazione e dei Contenuti Culturali presso l’Istituto Superiore ISTRAD di Siviglia che abbiamo avuto, le stiamo acquisendo grazie all’esperienza.
Progetto su progetto impariamo cose nuove, grazie al rapporto con le persone con cui lavoriamo, dall’interprete LIS a chi si occupa di musicoterapia, dall’educatrice ed educatore all’attrice e attore. Sia grazie al rapporto con le persone con disabilità che frequentano le nostre attività o che collaborano con noi per la realizzazione delle stesse.
La vera formazione per noi passa da qui. Tutto ciò che è nozione è più che importante, ma – un po’ forse come per voi – tanto arriva dal confronto, da una necessità che sentiamo.
Di cosa vi occupate?
Negli ultimi due anni ci siamo strutturate cercando di capire cosa volessimo essere e fare. Abbiamo deciso di dedicarci a fornire pari opportunità di accesso al settore della cultura alle persone, nello specifico, con disabilità sensoriali, ma senza targettizzare.
L’accessibilità ai linguaggi del contemporaneo è un tema che sentiamo caldo. Non vuol dire nulla rendere accessibile uno spettacolo a una persona cieca, se non tieni in considerazione anche gli interessi culturali della persona, il suo background e una serie di altri aspetti legati all’accessibilità che non afferiscono alla persona, ma ai linguaggi, ai contesti, alle tendenze.
Facciamo formazione e consulenza, siamo autrici di contenuti – come Progetto Zoe – che pongono l’accessibilità come criterio di ideazione. Ci occupiamo anche di attività di sensibilizzazione, come i corsi di sensibilizzazione alla LIS: prima vera attività con cui siamo partite e che ci ha permesso di sostenerci a livello economico.
A proposito della vostra offerta formativa: come avete cominciato, in quali aspetti vi siete affermate e come intendete portarla avanti?
Abbiamo cominciato da Pergine Festival per il quale, dal 2019, curiamo il progetto “No Limits” dedicato all’accessibilità del festival. Un progetto che il festival aveva già in essere, esistendo da più di dieci anni e di cui noi abbiamo raccolto l’eredità. Quando siamo arrivate noi c’era già un rapporto con le realtà con cui oggi ci interfacciamo dall’ENS (Ente Nazionale Sordi) di Trento, alla cooperativa sociale Abilnova.
Nel 2022, la direttrice del festival Carla Esperanza Tommasini ci ha chiesto di condurre una giornata di formazione sull’accessibilità alla cultura. Noi ancora non ci sentivamo del tutto pronte a lanciarci come formatrici. Come dicevo le nostre conoscenze derivano dall’esperienza, non era facile strutturare un percorso di formazione da poter passare agli altri. Per la prima esperienza di formazione abbiamo deciso di coinvolgere la museologa esperta di accessibilità Maria Chiara Ciaccheri. Grazie a lei abbiamo compreso meglio come poter strutturare quelle che erano già le nostre basi di partenza.
Oggi spiego l’importanza di indagare tanto le barriere quanto le soluzioni.
Tra tutte le barriere le più difficili da abbattere sono quelle culturali, legate all’abilismo e agli stereotipi connessi. L’accessibilità è un processo, che passa dalle nuove tecnologie e dalle piccole cose che emergono nella relazione; un percorso che passa dal cambiare una forma mentis rispetto a ciò che vuol dire ‘accessibilità’.
Lo scoglio più grande contro cui ci scontriamo quotidianamente è questo: spesso, ma non sempre, per le realtà culturali consiste in un bel “check”, l’accessibilità è solo un criterio all’interno di bandi per raggiungere qualche finanziamento. Da parte delle organizzazioni è di tendenza dire che ci si occupa di accessibilità, ma fondamentalmente ne sanno poco.
Per cui abbiamo approfittato dell’occasione offerta da Pergine Festival per condividere le conoscenze e abbiamo previsto percorsi di formazione che si strutturano in maniera diversa di volta in volta, a seconda di chi abbiamo davanti.
Pergine Festival è la collaborazione più sfidante, in un territorio che non ci appartiene. Una collaborazione continuativa, per la quale, di anno in anno, cerchiamo di migliorarci. Abbiamo dovuto fare tesoro dell’eredità che ci era stata data, per poi aggiustare il tiro e capire come continuare la progettualità già sviluppata.
Quali difficoltà ha affrontato Fedora ad oggi?
Lavorare nel settore dell’accessibilità della cultura è una delle cose più difficili, anche in termini di legittimità. Sappiamo tutte cosa significa lavorare nel settore culturale, quando poi ti vuoi inserire nella nicchia della nicchia è ancora più difficile.
Il passaggio più difficile, quando ci confrontiamo con le realtà culturali che cerchiamo di sensibilizzare, è far capire perché farlo.
Nel contesto della cultura, come in ogni contesto, essendo noi figli del capitalismo, c’è il pensiero al ritorno economico e al tipo di posizionamento che l’organizzazione culturale vuole assumere. La vera prima difficoltà è lavorare in un contesto che ancora considera l’accessibilità culturale come qualcosa di marginale e cercare di far cambiare questo approccio.
Volendo noi trasmettere il diritto alla pari opportunità, non per un ritorno economico o di immagine, ma perché pensiamo sia giusto e doveroso, anche per una persona sola.
Ovviamente date le logiche e le dinamiche delle organizzazioni culturali è molto difficile. Perciò spesso la motivazione alla base è sbagliata. Il motivo che spinge le organizzazioni a essere più accessibili, nove su dieci sono presupposti diversi da ciò che vogliamo. Quando i presupposti sono sbagliati è difficile impostare un processo che sia effettivamente efficace e porsi degli obiettivi realistici, giusti, concreti e aderenti alla realtà e che l’organizzazione può fare.
Poi ci sono delle difficoltà legate alla sostenibilità del nostro lavoro. Noi siamo una piccolissima associazione, nata dalla nostra volontà. Facciamo tantissimi progetti. È un lavoro quotidiano, anche di frustrazione, per garantirci un minimo di sostenibilità.
Stiamo parlando di accessibilità anche in questo senso. È un argomento che ci poniamo spesso: voler essere accessibili e sostenibili per le persone che collaborano con noi, sia in termini economici che di crescita professionale, cosa che poi spesso non vale per noi. Il nostro lavoro rischia di essere insostenibile sia in termini economici, sia rispetto ai ritmi che, a volte, ci richiede: lavorando anche dodici ore al giorno, oppure nei weekend.
Tutto ciò si scontra spesso con la nostra idea di accessibilità che passa dall’equa retribuzione, all’equo rapporto con il lavoro. In contrapposizione con il modello performativo richiesto dal lavoro culturale. Ragionare in questi termini ci fa riflettere molto rispetto a cosa vuol dire un’organizzazione culturale accessibile. Dovrebbe essere accessibile in primis per chi ci lavora all’interno e ciò tendenzialmente non accade. Cerchiamo di non essere ciò con cui ci scontriamo quotidianamente e che non ci piace, ma poi ne cogliamo tutte le difficoltà e ci scontriamo con queste contraddizioni.
Quali obiettivi siete riuscite a raggiungere?
Inizialmente non ci eravamo date degli obiettivi, ce li stiamo dando adesso. Quindi dall’essere nate come piccola associazione che voleva affacciarsi a questo mondo, in maniera ingenua, per imparare e vedere come sarebbe andata nel giro di pochi anni, oggi siamo riuscite a strutturarci, ad avere un nostro posizionamento e una nostra riconoscibilità, ad offrire delle competenze specifiche e delle proposte.
Oggi abbiamo una consapevolezza diversa su chi siamo e cosa possiamo fare. Ciò passa da tutte le collaborazioni avute ad oggi: Oriente Occidente, Base Milano, Fondazione Feltrinelli, il museo MUBA di Milano, Pergine Festival, Torinodanza Festival, Sony; e chi ci ha finanziato: la Fondazione di comunità Milano Onlus, il Pio Istituto dei Sordi, la Chiesa Valdese, la Banca d’Italia.
Nel nostro piccolo possiamo vantare una certa attenzione da parte di grandi realtà che hanno trovato in noi le giuste interlocutrici con cui affrontare un tema ampio e delicato; su cui c’è ancora tanto bisogno di investire, ma poche persone e realtà con le giuste competenze.
Progetto curatoriale di Eleonora Reffo e Maddalena Sbrissa
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