Lo abbiamo chiesto a Giulia Gazzo, detta Lunny – donna di 37 anni, cisgender e queer, femminista intersezionale, autistica adhd e discalculica.
A questa domanda si potrebbe rispondere con un libro, e tante persone molto più preparate di me fanno fatica a replicare esaustivamente.
Sappiamo che nel 1989 il termine intersezionalità è stato proposto per la prima volta da Kimberlé Crenshaw, attivista e giurista statunitense, nera, che ha posto l’attenzione sul fatto che le diverse identità sociali delle persone portano alla sovrapposizione, o per l’appunto intersezione, di diverse discriminazioni contemporaneamente. Razza, classe sociale, orientamento sessuale, identità di genere e, per l’appunto, stato di salute ed eventuale disabilità – fanalino di coda quando parliamo di intersezioni tra discriminazioni.
Nel mio piccolo penso che l’intersezionalità non debba essere interpretata come un calcolo aritmetico di discriminazioni sistemiche, che si sommano ai privilegi, portando ad una percentuale di oppressione da appuntarsi sul bavero.
L’intersezionalità è una pratica che non si smette mai di imparare e di migliorare, perché non smettiamo mai di conoscerci e di conoscere persone diverse da noi. Significa prendersi cura, che per me equivale sopratutto ad accogliere e accettare l’interdipendenza, perché la libertà non è individualismo. Libertà è riconoscere che a nessuna persona dovrebbe essere chiesto di cavarsela da sola.
Intersezionalità secondo me significa proprio cercare di capire come ci si possa attivare, collettivamente, perché ogni persona possa cavarsela.
Progetto curatoriale di Eleonora Reffo e Maddalena Sbrissa
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