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16 Gennaio 2024

Il glossario di Marina Cuollo e Sofia Righetti

un osservatorio spaziale su cielo stellato verde

“Il rispetto e la corretta informazione non sono solo una questione di contenuti, ma passano anche attraverso la scelta delle parole.”

Nel 2020, Sofia Righetti e Marina Cuollo hanno scritto un breve glossario dei termini da non utilizzare per parlare di disabilità, dal titolo “La lotta all’abilismo passa dal linguaggio”. L'articolo è disponibile sul sito di Sofia Righetti e Bossy, di seguito in parte ripostato.

Handicappato/portatore di handicap

Queste due definizioni vengono dal modello medico-individualista dove la persona era vista come una tragedia vivente, e l’handicap, ossia lo svantaggio, destino ineluttabile della persona con disabilità. Non a caso anche “svantaggiato” e “persona fragile” erano spesso utilizzati. Niente di più falso, vetusto e abilista, termini del genere non sono assolutamente tollerabili.

Invalido

Anche “invalido” deve essere abolito dal lessico, significa letteralmente “non-valido”, e nessuna persona deve mai essere identificata come non valida per le sue caratteristiche fisiche-intellettive-cognitive.

Diversamente abile

Diversamente abile (o diversabile) è un termine scorretto perché nasce sulla base di una norma accettata (in questo caso l’essere abile) e definisce le persone che si discostano (diversamente) da questa “norma” e dal sistema abile-normativo, senza considerarne l’essenza socio-politica e l’individualità propria. Nessuno si sognerebbe mai di definire qualcuno “diversamente etero”, “diversamente magro” o “diversamente bianco”.

Normodotato

“Normodotato” insieme a “normoabile” sono da evitare, in quanto termini che si riferiscono sempre a qualcosa di normale, in contrapposizione alla persona disabile che non lo è. Ma le persone disabili sono normalissime e la necessità di normalizzazione della loro esistenza è fondamentale, per questo “normodotato” non può essere accettato. Se una persona non-transgender non è chiamata “normale” o “normal-gender”, ma cisgender, per le persone senza disabilità non è stato ancora coniato un termine neutro che le definisca senza presupporre una ipotizzata normalità. È un gap lessicale che deve essere colmato al più presto. Nel frattempo, per tamponare questa mancanza viene usato non-disabile.

Disabile come sostantivo

Mai utilizzare disabile (e tutti i termini che indicano il tipo di disabilità: paraplegico, tetraplegico, cieco, sordo, amputato, ecc.) come sostantivo. In questo modo si confonde una caratteristica con la persona, riducendola unicamente alla sua disabilità. Utilizzereste “gay” “o “grasso” come sostantivo in una frase? La risposta ovvia è no (e se lo fate smettete immediatamente).

“Costretto sulla carrozzina” e “affetto da/vittima di”

Evitare assolutamente termini quali “costretto sulla carrozzina”, che rimandano a una concezione negativa della disabilità e degli ausili/tecnologie usati dalle persone per muoversi nel mondo, e la dicitura “affetto da/vittima di”. È fondamentale ricordarsi che la disabilità non affligge, non è negativa e la semantica deve essere sempre neutra (es.: mai dire “affetto da sindrome di Down”, ma “persona con sindrome di Down”).

Carrozzella 

I termini corretti sono carrozzina, sedia a ruote o sedia a rotelle. Mai usare carrozzella, che è lo strumento trainato dai cavalli. 

Non vedente e sordomuto

Anche non vedente (o non udente) è scorretto, sarebbe come dire “non camminante”, il termine da utilizzare è cieco. Così come sordomuto è obsoleto e offensivo: la maggior parte delle persone sorde non ha alcun difetto dell’apparato vocale, sono solo impossibilitate ad apprendere il linguaggio vocale perché non ne conoscono il suono e non possono quindi riprodurlo con la voce, o perché non hanno ricevuto un’educazione adeguata per imparare a farlo (da evidenziare, infatti, che molte persone sorde parlano perfettamente la lingua vocale). La connessione tra sordità e mutismo non è affatto scontata.

Rit**dato

“Rit*rdo mentale”, “rit**dato”, sono dispregiativi esattamente come “f*g” e “ni**er”: negli USA è stata indotta una battaglia supportata dalle star di Glee e dal mondo dello sport proprio per eliminare la famigerata r-word (www.r-word.org, con il motto Spread the word to end the word) paragonandola a termini denigratori legati all’orientamento sessuale e alla razza. L’ex presidente americano Barack Obama ha firmato nel 2010 la “Law Rosa’s”, eliminando il termine “ritardo mentale” e varianti simili dalla politica statunitense su educazione e lavoro, sostituendoli con “disabilità intellettiva” e “persona con una disabilità intellettiva”. Tale sostituzione è presente anche nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

 

In linea generale, quindi, persone con disabilità (come scritto nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità) e persone disabili (se si vuole porre l’accento sul significato di minoranza oppressa) sono le uniche parole corrette da usare.

E qui la domanda sorge spontanea, qual è la differenza tra persone con disabilità e persone disabili, e quale termine sarebbe meglio usare?

 

Persone con disabilità

Persone con disabilità (people with disabilities) è definito come “person-first language”, in quanto pone prima la persona e poi come sua caratteristica la disabilità. È utilizzato dalle istituzioni governative e non,  dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ed è il termine da usare indicato dal National Center on Disability and Journalism.

È importante usare il “person-first language” perché per secoli le persone con disabilità sono state deumanizzate e identificate soltanto con la loro supposta patologia. La persona scompariva a favore di una raffigurazione alienante in cui l’individuo era ridotto solo alla sua disabilità, problema ancora molto presente nella narrazione mediatica. Per questo si raccomanda di utilizzare il person-first language , per rispettare l’umanità delle persone con disabilità.

Persone disabili

Persone disabili (disabled people) invece si riferisce al “identity-first language”, ed è utilizzato soprattutto dalle persone e dagli attivisti disabili per rivendicare il loro stato politico di minoranza oppressa. Elizabeth Barnes scrive che, come non si dice “people with gayness” (persone con omosessualità)  non si dovrebbe dire neanche “people with disabilities”, perché la disabilità è una parte dell’essere umano esattamente come il suo orientamento sessuale, la sua identità di genere, la sua razza o la sua specie. Viene anche usato per rivendicare la parola “disabile”, spogliandola dai connotati negativi che la società le ha dato e mostrandola con orgoglio, proprio come una qualsiasi caratteristica della persona.

Le persone autistiche usano l’identity-first language per la valorizzazione delle neuroatipicità, e si battono affinché non venga usato “persona con autismo” in quanto termine patologizzante, che distacca l’individuo da una caratteristica che gli è propria.

Vi è inoltre una differenza semantica tra l’inglese e l’italiano: in inglese “disabled people” si traduce con “persone disabilitate” e conduce direttamente al modello sociale che vede la persona disabilitata dalla società, e non per le sue caratteristiche fisiche/cognitive/intellettive.

Il dibattito è aperto ed entrambe le scelte hanno validissime motivazioni, chiedere alle persone come preferiscono essere chiamate è sempre la scelta preferibile. In linea generale, per i giornalisti e i mass media sarebbe maggiormente opportuno usare il person-first language, a meno che non ci sia una linea politica attivista mirata a sottolineare lo status di minoranza oppressa delle persone disabili, e in questo caso una nota per rendere pubblica la consapevolezza della scelta terminologica è consigliabile.

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